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Intervista a Luca Lucini

Intervista a Luca Lucini
XXII Edizione (2023) – Festival Del Cinema di Porretta Terme
Regista di Le mie ragazze di carta, intervista a cura di Alessandro Guatti

Con la proiezione del film Le mie ragazze di carta all’interno della selezione per il Concorso Fuori dal Giro 2023, abbiamo avuto l’opportunità di intervistare il regista Luca Lucini.

Da dove nasce l’idea di questo film? Quanto c’è di autobiografico?

Direi che ad essere autobiografica è proprio la base, l’idea iniziale della storia: io sono nato davanti a una sala cinematografica. Lì è sbocciata la mia passione per il cinema: andavo a vedere praticamente qualsiasi cosa, da Bud Spencer & Terence Hill a Incontri ravvicinati del terzo tipo ai cartoni animati. A un certo punto non sono più potuto entrare e solo molto più tardi ho capito il motivo, ovvero le esigenze di un’epoca in cui si trasformavano, si modernizzavano – come si dice nel film – i cinema, che diventavano cinema osé. Quando, un poco più adulto, sono entrato con un mio amico e compagno di scuola si è innescato questo cortocircuito tra l’amore per il cinema, il sesso, l’amore: un’esperienza un po’ strana e, rivista con il tempo, quasi poetica. Ho raccontato tutto ciò a Mauro Spinelli, che è la persona grazie alla quale per certi versi ho iniziato a fare cinema, e lui ha ambientato la storia a Treviso, eleggendo a protagonista la famiglia Bottacin e scrivendo una sceneggiatura che io trovo veramente molto bella, interessante, poetica e che ha vinto nel 2004 il Premio Leo Benvenuti per la sceneggiatura di commedia nell’ambito del Premio Solinas. Credo che la sceneggiatura si possa considerare un misto tra il vissuto di Mauro e il mio, perché io sono nato e cresciuto a Milano e quindi ho vissuto dinamiche familiari e sociali diverse rispetto a quelle raccontate nell’opera. Negli anni immediatamente successivi al premio non sono riuscito a realizzare il film perché ovviamente non ha tutti quegli ingredienti di marketing che piacciono adesso agli algoritmi ma, grazie a Pepito Produzioni, Agostino Saccà, Giuseppe Saccà e 302 Original Content, due anni fa ce l’abbiamo fatta. Purtroppo Mauro era già mancato e non sono mai riuscito a vedere con lui in sala un nostro film, perché non avevo più avuto occasione di lavorare di nuovo con Mauro dopo il mio corto Il sorriso di Diana, che lui aveva scritto e che mi ha permesso di iniziare la mia carriera cinematografica.

Dato che anche tu hai partecipato alla scrittura della sceneggiatura ti chiedo quanto sia stato difficile gestire tutte le contrapposizioni che sono presenti all’interno del racconto. Parte della ricchezza del film è dovuta sicuramente al fatto che esso si sviluppa su elementi binari, dicotomici (tradizione versus modernità, città versus campagna…): tenerli insieme in un modo così coerente ed efficace non deve essere stato facile.

In realtà Mauro ed io avevamo sin dall’inizio una visione abbastanza chiara in merito, cioè mettere in parallelo la perdita dell’innocenza di un ragazzino (che sta attraversando un periodo molto particolare) con la perdita dell’innocenza di un intero Paese: non a caso il film è ambientato nel 1978, anno dell’omicidio di Aldo Moro e della legge sull’aborto, ovvero un momento spartiacque dal quale l’Italia non è più tornata indietro. Anche se volutamente niente di questo viene affrontato direttamente nel film, c’è comunque il riverbero della situazione generale sui personaggi e sulle loro vite, con i Bottacin che spostandosi dalla campagna alla città iniziano ad avere nuove ambizioni e nuove esigenze, con la città stessa che sta cambiando e li porta verso situazioni nuove. Da qui ad esempio (e questo aspetto deriva dalla biografia di Mauro) l’emancipazione di Anna, la moglie di Primo, che trova un lavoro e inizia a contribuire all’economia familiare, rivelando un Paese che si stava industrializzando lasciandosi alle spalle molti aspetti del Paese agricolo degli anni passati, con la diffusione di tantissime lavoratrici a cottimo che si portavano il lavoro a casa, specialmente nel comparto del tessile che stava crescendo in maniera esponenziale. È anche questo che porta la famiglia Bottacin a passare da contadina a piccolissimo-borghese e potersi quindi permettere finalmente la TV a colori.

Tutti questi aspetti esplicitano il cambiamento che i personaggi attraversano tramite alcuni momenti particolari che assumono una funzione di demarcazione del passaggio dall’infanzia alla maturità sia di Tiberio sia di tutti gli altri personaggi perché, a onor del vero, non si può parlare veramente di un protagonista vista la struttura corale del film.

Sì, esatto. Questi passaggi sono stati scritti da Mauro con grandissima delicatezza e sono da leggersi come un futuro auspicabile. Pensiamo al personaggio di Claudio, il travestito: la sua sottotrama è una storia di accettazione della diversità. Non è una storia d’amore ma uno spunto per mostrare un nuovo sguardo sulle cose che sembrano diverse a chi, come Primo, viene dalla campagna e ha una visione differente delle cose, ma che in realtà diverse non sono. Insomma, ci sono tanti piccoli elementi che corrono paralleli al racconto principale e arricchiscono il film, come ad esempio una riflessione sullo svuotamento della sala cinematografica che nella narrazione è rapportata alla novità della televisione a colori ma che per noi, oggi, è riconducibile alla fruizione dei film sulle piattaforme o sugli smartphone.

Sono d’accordo su tutto. Per quanto riguarda Claudio, credo che il suo personaggio sia descritto con una poesia e una delicatezza notevoli, dando adito anche ad uno scambio tra lui e Primo: non è, quello di Primo su di lui, uno sguardo di giudizio ma una accoglienza del diverso che cambia Primo stesso.

Certamente, perché lo migliora e lo aiuta a crescere, proprio come crescono Tiberio e Anna.

Esatto. E tornando al secondo punto della risposta precedente, ovvero alla sala: oltre alla stupenda inquadratura finale, abbiamo vari elementi nel film (la star di cui si innamora Tiberio, il ruolo sociale della sala cinematografica nella narrazione) che lo identificano come una vera e propria dichiarazione d’amore per il cinema da parte tua.

Assolutamente. Al cinema in sala, specificherei, perché è la condivisione con gli altri che ti porta a vedere i film in modo più approfondito, diverso.

Certo. E visto che abbiamo parlato del rispecchiamento tra l’epoca del film e la nostra, allarghiamo lo sguardo e dimmi quanto dell’Italia di oggi ci racconta il tuo film ambientato nel ’78.

Diverse cose. Pensa a quanto può dire del mondo e della Chiesa di oggi il personaggio del prete (Neri Marcorè), con la famiglia segreta che getta uno sguardo sulla nostra contemporaneità e sull’attualità, sul problema del matrimonio dei preti. E poi sicuramente il film ci racconta del ricorso storico della crisi della sala, che stiamo vivendo anche oggi, con la speranza che si riesca a superarla. E in realtà una speranza c’è perché vedo la generazione di mio figlio, quella dei 18-19enni, che oggi si sta riavvicinando ai vinili, cosa impensabile dieci anni fa. Quindi la mia, la nostra speranza è quella che i ragazzi di oggi, tra qualche tempo, ritrovino il piacere di condividere un film in sala e provare un’emozione inevitabilmente diversa.

Sarebbe bello! Torniamo per un attimo alla trama del film: si nomina in diverse occasioni il prestigio sociale, il rispetto sociale, sempre collegato al denaro, ai soldi, visti come mezzo per ottenere rispettabilità. Potresti approfondire questo tema?

Questa è sicuramente una di quelle tematiche che si possono rapportare all’oggi. È all’inizio di un cambiamento della scala di valori: il denaro comanda su tutto e adesso è diventato quasi un’ossessione. Oggi nulla può prescindere dal business, dal guadagno. L’avidità toglie poesia all’arte ma anche a qualsiasi attività di imprenditoria in generale, che prima era eroica, mossa dalla passione, dall’attenzione e dal rischio e adesso è indirizzata solo alla finanza.

Questo mi porta a sottolineare la differenza d’approccio alla nuova vita tra i personaggi di Anna e di Primo: mentre lei guarda sempre agli altri sentendosi in difetto perché loro hanno la macchina o la tv a colori e prefissandosi l’obiettivo di raggiungerli a livello sociale, Primo è più concentrato su un suo percorso di crescita individuale che riesca a fargli mantenere la propria identità. Il tuo sguardo sulla donna tuttavia non mi sembra giudicante: come possiamo definirlo? È uno sguardo di supporto, di tenerezza, di curiosità? Come la guardi, questa donna?

Direi proprio con tenerezza. Volevo raccontare una donna che inizia a volersi e doversi emancipare e lei lo fa sì in quel modo un po’ goffo, ma è spinta da uno spirito di iniziativa ammirevole: prende in mano la situazione, convince la famiglia ad andare via dalla campagna, si lascia intendere che può essere stata lei a far raccomandare Primo dal prete… tutto ciò me la fa guardare con grande tenerezza ma anche con ammirazione perché si può immaginare che non sia una donna di grande cultura o di particolare profondità: la sua ambizione per la TV a colori ce la racconta in maniera tenera ma rappresentativa di un’Italia che stava cambiando. Mi piace moltissimo il lavoro che ha fatto Maya Sansa, che è un’attrice straordinaria e molto in sintonia con Andrea Pennacchi.

Ultima domanda, sul tuo sguardo da regista. Ci sono delle finezze nella costruzione di alcune scene che denotano una ferma consapevolezza del mezzo cinematografico, come i due baci in successione (della pornostar Milly prima, di Marika poi, che portano Tiberio dal mondo dell’infanzia e dell’immaginazione a quello della maturità e della realtà). Come hai pensato il tuo lavoro registico, il tuo sguardo sul mondo del film?

Mi ha aiutato moltissimo lavorare insieme a Mauro sulla sceneggiatura per definire lo guardo che avrei avuto. Lui ha impostato molto bene il percorso dei vari personaggi che sono stati poi resi alla perfezione dalle interpretazioni degli attori, tutti bravissimi. Posso dire che mi sono fatto anche guidare da quello che succedeva sul momento, durante le riprese, perché – come sosteneva Fellini – il film riesci ad educarlo un po’ ma poi cresce come vuole lui. Io ho semplicemente voluto bene a tutti i personaggi e alla storia così come l’ha raccontata Mauro e quindi pian piano le cose emergevano da sole.

In effetti si vede che vuoi bene a tutti i personaggi: sembra che li accompagni per mano, che ne porti avanti uno per poi tornare a prenderne un altro che è rimasto un poco indietro. È un aspetto davvero particolare, che si vede ben congeniato già in fase in sceneggiatura; quindi: complimenti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come sei entrato in contatto con la storia dei minigeller* a cui il film è ispirato, vicenda che per anagrafica non appartiene al tuo vissuto? (*= bambini che dopo aver visto una esibizione dell’illusionista Uri Geller, hanno manifestato fenomeni simili riuscendo apparentemente a piegare i metalli)

E’ una storia che di fatto non conosce praticamente nessuno, ci sono arrivato molto per caso perché a Bologna, la città in cui vivo, ormai quasi dieci anni fa, ho conosciuto un para-psicologo, una persona che negli anni 70 ha studiato vari fenomeni non comuni, o quantomeno apparentemente tali, tra cui questi bambini che sembravano in grado di fare cose “straordinarie” come piegare oggetti di metallo. Questa storia si radica in un periodo storico molto preciso, ovvero metà degli anni 70, durante i quali in RAI ma anche in altre TV europee, passava un personaggio, un sedicente mago [l’illusionista Uri Geller] che in diretta televisiva piegava cucchiai, forchette, chiavi ed altri oggetti di metallo. C’è stata una specie di psicosi di massa per cui la gente a casa sperimentava queste abilità e cercava di replicare esperimenti del genere. La storia va contestualizzata in quel momento storico, appena usciti dal ’68, dove da un lato c’era attenzione molto forte al paranormale, a tutto ciò che sfugge alla ragione, all’irrazionale, a quello che non era legato al sapere ed alla scienza ufficiale e, dall’altro, era ancora molto vivo il mondo contadino con le sue tradizioni e le sue ingenuità. Ci si doveva ancora pienamente trasformare in quella che oggi è la civiltà dei consumi. In quella fase di transizione, permaneva ancora una certa ingenuità e faciloneria, in senso buono, una sorta di predisposizione a credere anche all’ imbonitore, soprattutto se veniva trasmesso in TV.

Trattandosi comunque di una storia per così dire “laterale” rispetto a quegli anni e, come detto, poco conosciuta, perché l’hai scelta come base per il tuo primo lungometraggio?

Non è mai una cosa molto razionale scegliere una storia. Da una parte c’è stata una fascinazione più che altro mentale per una vicenda che ha il sapore della fantascienza, dei film americani con cui sono cresciuto negli anni 80 e 90 che però allo stesso tempo è reale ed è avvenuta in un luogo non lontano da dove provengo io. Quindi la fascinazione è indirizzata a qualcosa di fantascientifico che però a suo modo è concreto essendo legato a luoghi ed ad un territorio a me familiari. Ma non è di questo di cui in realtà parla il film.

E’ un espediente narrativo per parlare di qualcosa d’altro.

Si, è uno spunto di partenza. Quello che mi toccava in tutta questa storia sono i bambini che erano diventati oggetto di attenzioni particolari, studiati come cavie e sui quali venivano proiettate attese molto forte da parte degli scienziati ma anche dai genitori. Mi interessava raccontare la sensibilità di questi bambini, che cosa avevano dentro. Uno in particolare mi ha colpito tra le storie che ho raccolto e che mi ha ispirato nello scrivere il personaggio di Pietro. Mi interessava raccontare dell’infanzia e del rapporto non facile con il mondo adulto.

La scelta del luogo del film è stata fatta per familiarità con esso o la vicenda si è svolta realmente in centro Italia?

I fenomeni studiati dal professore che ha condiviso con me gli studi ed i diari del tempo soprattutto si svolgevano nella zona della pianura padana che è un paesaggio che conosco vivendo a Bologna, verso il Po ed il ferrarese, zone pianeggianti piatte. Anche qui, non si sceglie davvero in modo razionale. Quando ho iniziato a lavorare al film mi è capitato di frequentare spesso i luoghi dove ho poi di fatto girato, per ragioni personali, per amici ed affetti, e trovandomi in loco mi sono reso conto che quel paesaggio era lo sfondo ideale per il mio film. In particolare, la Val Marecchia, ha una conformazione geologica unica, con forme di roccia che spuntano come torri in mezzo ad un paesaggio di colline, ha qualcosa di magico e fiabesco.

Anche il paesaggio, come tutto il film, è in bilico tra il concreto e l’irreale: da un lato una campagna rurale e quotidiana e dall’altro scorci che sembrano lunari. E così anche i personaggi adulti incarnano questo perfetto dualismo: il professore etereo e gentile, quasi alieno rispetto alla ruvida concretezza del padre.

Sottoscrivo quello che hai detto. Era proprio la mia intenzione fare percepire questo allo spettatore.

Complice anche l’accento straniero del professor Moretti, che lo rende ancora più alieno rispetto al contesto, anche la fisicità degli interpreti accentua la contrapposizione dei due personaggi. Avevi già il cast in mente?

Quando fai un film cerchi una faccia che corrisponda al tuo personaggio. Avevo già delineato dei caratteri molto chiari sia per il padre che per il professore, caratteri contrapposti tra loro: un padre burbero, molto duro da un lato, un professore protettivo e buono, dall’altro, quasi “non terreste” e più etereo. E’ stata una ricerca molto lunga trovare la “faccia giusta”, perché me è una questione di faccia ancora prima che di “nomi” di attori. E credo che gli interpreti scelti corrispondano al meglio a quello che avevo in mente. La faccia scavata di ……..è una faccia meravigliosa, oltre ad essere un attore straordinario. Il suo aspetto racconta molto del suo personaggio. Cosi come quello di David Pasquesi.

E come hai scelto l’interprete di Pietro?

Il film è stato girato nel 2021 ed i cast sono stati fatti ancora n periodo CIVID, quindi on line. All’appello, chiamata che avevo lanciato hanno risposto oltre 600 bambini. Già dopo la prima scrematura avevo notato qualcosa di molto interessante in Martino Zaccara, il bambino che interpreta Pietro. Poi ho convocato una trentina di questi bambini in presenza e scremato ulteriormente, ma devo dire che Martino è stato quasi sin da subito il “prescelto”. Manifestava un certo distacco, sembrava quasi non volesse essere scelto, ed il fatto che a lui apparentemente non interessasse fino in fondo, me lo rendeva ancora più interessante. Poi aveva un qualcosa da adulto, pur essendo un bambino, una sorta di maturità che me lo ha fatto preferire. A parte essere un bambino molto più allegro di quello rappresentato, la complessità e lo spessore che gli sono propri escono anche nel personaggio di Pietro.

In fondo è un film sull’invisibile, come dice il professore “l’invisibile è ciò in cui gli scettici non credono”. Molte delle cose che accadono, non si vedono,  così come altri dettagli  non vengono mostrati, (ad esempio la foto della madre). Tutto è basato sulla sottrazione e sull’allusione.

E’ esattamente così. Anche io ho usato la parola “sottrazione”. E’ un film che tradisce le sue premesse di genere: invece di richiamare un linguaggio spettacolare, invece di mostrare, risulta controintuitivo rispetto alle premesse della storia. Ma io volevo proprio parlare di quello che non si vede, che non sono necessariamente i poteri, o la forza della natura, o ciò che non è intellegibile all’uomo, ma tutto ciò che di invisibile c’è tra gli individui: tra un padre ed un figlio, tra un adulto ed un bambino che non si conoscono, o tra due ragazzini che scoprono un accenno di attrazione. Tutta la sfera dell’invisibile è ciò che alla fine da un senso a tutto il resto.