Con la proiezione del film “Spaccaossa” all’interno della selezione per il Concorso Fuori dal Giro 2022, abbiamo avuto l’opportunità di intervistare il regista Vincenzo Pirrotta.
Da dove nasce l’idea di fare un film su questo tema, su questa vicenda?
La genesi risale al fatto che una mattina, ascoltando la radio, ho sentito dell’arresto di diciotto persone che compivano mutilazioni per inscenare incidenti al fine di truffare le assicurazioni. Ciò che mi colpì non fu tanto l’argomento di per sé aberrante, ma la doppia miseria che c’era nella notizia: la miseria vestita di cinismo dei delinquenti senza scrupoli e la misera vestita di disperazione di chi si fa spaccare le ossa per poche migliaia di euro, a volte per sopravvivere, a volte per nutrire i propri vizi (come fa “Macchinetta” nel film), altre per rispettare le convenzioni sociali in questo mondo di subcultura, per non sfigurare con il vicinato o i parenti (come nel caso dell’uomo che deve pagare la festa della prima comunione). Ecco, le microstorie che ho inserito nel film fanno tutte parte di questo macrocosmo di miseria disperata. La riflessione su queste due miserie mi ha spinto ad allargare lo sguardo rispetto a questa subcultura e a pormi una domanda che investe tutti noi: cosa siamo disposti a farci mutilare per ottenere qualcosa? Oltre all’assonanza pasoliniana della materia di questa vicenda, c’era quindi questo interrogativo che mi ha spinto ad elaborare tale tema. Mi sono dunque messo a scrivere un testo ma essendo io un autore teatrale (per il cinema avevo scritto solo un piccolo docu-film sulle tradizioni popolari siciliane del Natale) avevo cominciato a immaginare questa storia per il teatro, ambientando la scena in un magazzino che chiamavo “antro del dolore”, che altro non era che il magazzino dove venivano compiute le rotture. Poi però, man mano che scrivevo, mi sono reso conto che la storia stessa mi stava comunicando che quella non era la strada giusta, la modalità corretta di raccontarla. Allora una mattina ne parlo a Salvo Ficarra (siamo amici e giochiamo a calcetto il sabato mattina) ed è stato lui a dirmi “Facciamo subito un film”. Salvo e Valentino Picone hanno creduto in questa storia e hanno voluto produrla. Ecco quindi che dopo novanta regie teatrali ho debuttato come regista di film.
Come ti sei sentito in questo ruolo?
Mi sono sentito molto bene! Non lo dico per presunzione: avevo una troupe meravigliosa al mio fianco, per cui non sembrava neanche di andare a lavorare. Dal punto di vista della costruzione delle scene, ho immaginato ognuna di esse come una piccola pièce teatrale e l’ho montata mettendo al centro i corpi e i movimenti degli attori, proprio come lavoro sempre in teatro. Per quanto riguarda invece la regia vera e propria, ho cercato di ricreare ove possibile un mondo “teatrale”, con una certa continuità: ecco perché ci sono diversi piani-sequenza. È stato fantastico, inoltre, scoprire le possibilità del mezzo cinematografico: tante volte in teatro avrei voluto la possibilità di concentrarmi sugli occhi o sulle labbra di un attore, isolarne lo sguardo o il primo piano, ma lì è possibile solo agire sulle luci e sull’isolamento della figura. Con il cinema, poter usare i dettagli, i volti, i primi piani è stato entusiasmante. Ero come un bambino alle prese con un giocattolo nuovo.
E come mai hai scelto anche di interpretare il ruolo del protagonista?
All’inizio avevo deciso di stare solamente dietro la macchina da presa, però Salvo, Valentino, il co-sceneggiatore Ignazio Rosato e persino i produttori all’interno della RAI mi dicevano che avrei dovuto interpretare io Vincenzo. In fondo avevano ragione perché questa storia la sentivo talmente sulla pelle, avevo una tale esigenza di raccontarla che l’incarnazione in Vincenzo era già avvenuta mentre scrivevo e gli altri lo percepivano. Tant’è vero che in sceneggiatura avevo già messo il nome Vincenzo al protagonista, (“per comodità”, dicevo), pensandolo come temporaneo, invece poi è rimasto.
Prima hai fatto riferimento a una sorta di ispirazione pasoliniana: mi piacerebbe che approfondissi questo tema.
Pasolini è un mio nume tutelare: mi sono nutrito di Pasolini. Ho anche scritto delle opere per il teatro con lui protagonista che sono poi confluite nello scritto All’ombra della collina. È chiaro che quando mi accosto a certe storie, a certe realtà che parlano di quella che io definisco “disumana umanità”, l’influenza della maestà di Pasolini c’è, arriva. In questo caso la storia stessa era così forte da essere già pasoliniana in sé. Film come Accattone mi sono poi venuti in aiuto nella scelta del colore, nella fotografia.
La fotografia di Daniele Ciprì contribuisce infatti in modo sostanziale a creare l’atmosfera di degrado morale e desolazione. Come avete lavorato insieme?
Daniele veniva sempre a vedere i miei spettacoli teatrali e mi aveva sempre detto che avrebbe voluto curare la fotografia del mio primo film. Quando Spaccaossa è entrato in produzione gliel’ho ricordato e lui ha mantenuto la promessa. Ciò che ho chiesto a Daniele te lo posso sintetizzare con un’immagine che gli ho dato la prima volta che abbiamo parlato del film, un’immagine che fa riferimento a un ricordo di quando ero bambino. Io sono di Partinico, in provincia di Palermo, e lì il venerdì santo c’era la processione che usciva dalla chiesa detta “Opera Santa della Misericordia” (sorta con lo scopo precipuo di dare cristiana sepoltura ai condannati a morte). Quando, prima del Cristo morto, usciva la statua dell’Addolorata che teneva il manto nero con le braccia allargate, si creava come un’eclissi: un’ombra, un velo di tenebra si stendeva sul sagrato dove eravamo noi ed era come se tutto diventasse di ghiaccio. Ecco allora che ho chiesto a Daniele di eliminare qualsiasi traccia di sole: ho voluto raccontare una Palermo strana, atipica, senza sole, come se sulla città scendesse questo velo di ghiaccio, che richiama poi il ghiaccio usato dai criminali per anestetizzare le vittime.
A proposito di freddezza: alla fine del film resta una sensazione di impossibilità di cambiare le cose, di trovarsi di fronte a personaggi irredimibili. La condividi o la mia lettura è troppo pessimistica?
Purtroppo non è pessimismo: con l’età ho capito che ci sono delle cose che non potranno mai essere estirpate. La speranza ci può essere solo se siamo disposti a fare una sorta di rivoluzione. Per come stanno le cose credo proprio che siamo in una condizione di irredimibilità. Resta il fatto che il mio atteggiamento verso i personaggi non è accusatorio. Una storia raccontata senza giudicare può essere rivoluzionaria. Certo però che Vincenzo è un “uomo senza qualità”, una “cosa inutile” (come dice “Macchinetta”). Lui potrebbe riscattarsi, potrebbe essere l’eroe della vicenda ma non riesce mai ad affermarsi come uomo. Per me un momento importantissimo del film, che ho voluto girare come la scena di un western, è quando Michele gli dà i soldi dopo lo spaccamento di Luisa. Il dettaglio sulla mano di Vincenzo è indicativo del bivio che sta di fronte a lui: potrebbe scagliare i soldi in faccia a Michele e cominciare una nuova vita, affrancarsi da quel mondo, trasformare quell’attimo in una rivincita per Luisa e soprattutto per sé stesso. Ma lui non compie questa scelta: sceglie di restare asservito alla madre, al clan. Anche la scena in cui prende le chiavi per andare dalla vedova è così: un’ulteriore conferma della sua nullità.
Ho apprezzato moltissimo come hai costruito la rete delle relazioni tra i personaggi. Ritengo in particolare molto toccante il rapporto di Vincenzo con Luisa: sembra che i due possano rappresentare una via d’uscita dall’inferno l’uno per l’altra e invece anche lei viene trasformata dapprima in una pedina e poi in un elemento di infinita desolazione, come a testimoniare l’impossibilità di salvarsi. Ci parli della costruzione dei personaggi?
Il filo principale attorno al quale ho scritto la rete dei personaggi è proprio l’evoluzione di Luisa, un personaggio dotato di grande forza ma anche di immensa fragilità: ho scritto il suo percorso come una Via Crucis che finisce con una crocifissione laica, una morte laica. Lei vede in Vincenzo una possibilità di salvezza e addirittura di felicità che la fa però piombare nel baratro mentre lui sceglie la madre e non lei. Tutti i personaggi sono miserabili e disperati, appartengono a quel sottobosco, a quella subcultura cui accennavo prima: anche chi accetta di diventare complice di chi spacca le ossa. Di primo acchito il pubblico pensa “Poverini!”, però a ben guardare anche loro sono dei piccoli mostri, al netto della pietà del dolore che stanno subendo.
Restiamo sul rapporto tra attori e personaggi: la scelta di affidarti a interpreti siciliani e l’adozione della lingua siciliana (sottitolata in italiano) erano semplicemente richieste dalla storia o hanno anche a che fare con la ricerca sulle tradizioni popolari e sulle pratiche arcaiche che porti avanti da anni nei tuoi lavori teatrali?
Direi entrambe le cose. È una scelta venuta naturalmente dal mio percorso artistico, ma certamente anche la storia lo richiedeva: ho provato a girare in italiano ma non c’era la stessa verità. Ho trovato che così fosse più giusto, che l’aderenza fosse maggiore e l’impatto più forte.