Intervista a Federico Francioni

Intervista a Federico Francioni
XXI Edizione (2022) – Festival Del Cinema di Porretta Terme
Regista di Rue Garibaldi, intervista a cura di Greta Gorzoni.

Con la proiezione del film “Rue Garibaldi” all’interno della selezione per il Concorso Fuori dal Giro 2022, abbiamo avuto l’opportunità di intervistare il regista Federico Francioni.

 

Come hai conosciuto i ragazzi protagonisti Ines e Rafik e come hai sviluppato l’idea di questo progetto?

Li ho conosciuti in un modo abbastanza particolare: io ero a Parigi per un paio di mesi presso gli atelier baran, una scuola che si occupa di documentario. Quell’anno c’era come tema la gioventù. L’atelier durava un paio di mesi, quindi non avevo moltissimo tempo per fare ricerche a Parigi e quindi mi ricordo che avevo scritto su un gruppo Facebook di giovani italiani a Parigi, per capire se c’erano delle storie da raccontare. La cosa interessante è che ho ricevuto molti messaggi di ragazzi che avevano dei nomi arabi, che mi dicevano “incontriamoci, voglio raccontarti la mia storia italiano a Parigi”. Ne ho conosciuto diversi e il dato emerso che più mi ha colpito era il sentimento molto forte di sentirsi italiani, a volte anche senza nazionalità. Questo è stato il mio dato di partenza, tra queste persone ho conosciuto Ines e Rafik, che mi hanno colpito per quello che erano, per loro umanità, per il loro rapporto, per il loro parlare dialetto siciliano mescolandolo con l’arabo: è stata proprio come una folgorazione. Rafik in quel momento faceva l’autista di Uber quindi passava tutte le notti in macchina a Parigi, mi interessava moltissimo poter esplorare e raccontare la città solo attraverso la macchina e le luci. Dal nostro incontro è nato un cortometraggio, io sono tornato in Italia e ho cercato in ogni modo di trovare delle produzioni per girare il film. È stato impossibile. La storia non risultava vendibile alle produzioni che mi dicevano di puntare di più sul tema della migrazione, ma a me non interessava fare un film sui migranti, volevo fare un film su Ines e Rafik, quello che rappresentavano in quel momento, la loro gioventù, i loro vent’anni vissuti all’estero, questo rapporto assoluto tra di loro e la loro umanità. Ho trovato un’altra residenza artistica col museo della storia dell’emigrazione che mi ha permesso di iniziare questo progetto, sono andato a Parigi e poi fondamentalmente sono andato a vivere dai ragazzi. Ho vissuto con loro cinque mesi e ho dormito sul divano.

Letteralmente un documentario di osservazione a pieno titolo.

Sì di osservazione, ma anche di partecipazione, per me era importante anche testimoniare il fatto di essere lì. Era importante questo presente, ma anche mettere la luce su due ragazzi che fanno parte di un universo un po’ marginale, nessuno si mette mai in ascolto di queste persone. Per me la scommessa era renderli emblematici di questo presente, poi loro sono portatori di tantissimi temi, di tantissima ricchezza, sono due ragazzi straordinari. Inoltre, vi è il tema della precarietà, spesso declinata come precarietà lavorativa, ma qui intesa come un fenomeno che ormai è diventato costitutivo dell’esistenza, cioè un modo di essere e di vivere, questo senso di non appartenenza al mondo e al presente. Per me era fondamentale raccontare questo attraverso il film, mettersi in ascolto di ciò che potevo condividere con loro. É anche un modo di specchiarsi e raccontare qualcosa di universale.

Il titolo “Rue Garibaldi”, ovvero la strada della periferia parigina in cui i ragazzi vivono, è indicativo dell’importanza fondamentale che la dimensione della spazialità ha nel tuo documentario. Molte riprese sono svolte all’interno della casa, le riprese in esterno sono poche, misurate e studiate. Come hai lavorato su questo fronte?

Questo progetto per me è sempre stato un po’connotato dall’idea di non uscire di casa, ma questa è una cosa che deriva dall’osservazione della realtà, ma anche dal momento di passaggio loro stavano attraversando. Questi ragazzi sono colti in una transizione, stanno lasciando qualcosa, forse ne stanno trovando altre con grande fatica e con grande sofferenza. La casa in questo senso è una grotta, una culla, nel momento oscuro di passaggio. L’esterno per me non esisteva, questa città, Parigi, per me non c’è: è un altrove, potrebbe essere qualsiasi altro posto nel mondo. Il centro della città, il centro di Parigi è semplicemente qualcosa di irraggiungibile. Si vede nel film per un attimo la torre Eiffel illuminata, ma è solo un frammento intorno alle loro vite. In qualche lavoro precedente che ho fatto mi sono mosso di più in spazi esterni, in questo caso ho provato a pensare alla casa come se fosse essa stessa il paesaggio. Mi sono interrogato su come spostarsi da una stanza all’altra, su come seguire i micromovimenti del quotidiano, tramite le finestre che la luce attraversa da una parte all’altra. Vi è anche questa idea della finestra, della soglia che è anche il telefono: portale da cui vengono fuori ricordi, c’è quel frammento in cui si vede la campagna tunisina, la dimensione del lavoro. Le finestre vere sembrano aprirsi verso il nulla, mentre lo schermo del telefono li mette in relazione con un altro mondo

La connessione, o disconnessione, veicolata dalla tecnologia è un elemento molto presente: la costruzione di una rete smaterializzata di persone contemporaneamente allo spostamento reale di corpi che emigrano. Come hai lavorato su questa dualità?

Utilizzando questo telefono come se fosse una vera finestra. Trovo molto significativo quando c’è quella videochiamata di Ines con i parenti in Tunisia, familiari che lei praticamente non ha mai visto, eppure quella è la sua famiglia, con la quale ha un legame estremamente forte, nonostante la possa conoscere solo attraverso questa soglia. Noi di quel mondo rurale, di quella campagna, di quel villaggio vediamo soltanto l’immagine nel telefono. Il telefono è uno strumento con cui il mondo esterno entra in modo profondo dentro questa casa.

Restando sul riavvicinamento alla dimensione familiare tramite la tecnologia, è molto interessante la dimensione della lingua e l’uso che ne fai nel tuo documentario. I ragazzi oscillano tra l’utilizzo del codice linguistico tunisino, francese, siciliano e inglese. Sul finale Ines esplicita proprio il ruolo che il suo plurilinguismo ha nella costruzione e nell’affermazione della sua identità. Come hai lavorato sull’alternanza tra i codici linguistici? È un elemento su cui hai riflettuto in fase di montaggio?

Questo è un elemento che fa estremamente parte di loro e del loro modo di essere, l’ho trovato profondamente affascinante. In diverse situazioni usavano lingue diverse, quando si arrabbiavamo iniziavano a parlare di siciliano o addirittura in arabo. In momenti più formali veniva fuori il francese.

Ogni lingua in qualche modo riflette una visione del mondo, un certo modo di guardare, un certo modo di intendere le cose. Li ho sentiti qualche mese fa e devo dire che questa cosa è cresciuta in ampiezza, adesso inglobano frasi francesi mentre parlano, o frasi in arabo. È una nuova, ancora una volta frammentata e fratturata, che però esiste, che però c’è, con tutte le sue fratture è comunque un’unità e loro la incarnano. Ecco, credo sia proprio qui la forza di questi due ragazzi: il fatto di tenere insieme tanti frammenti, tanti brandelli diversi e lontani e comunque viverci.