Con la proiezione del film “Acqua e anice” all’interno della selezione per il Concorso Fuori dal Giro 2022, abbiamo avuto l’opportunità di intervistare il regista Corrado Ceron.
Da cosa è dipesa la scelta di trattare un tema fondamentale dell’oggi come il fine vita con un tono leggero, anche se malinconico?
Credo che temi così spinosi e attuali come il suicidio assistito o l’aborto vengano comunicati meglio allo spettatore attraverso la leggerezza. Con Federico Fava avevo già scritto altre due sceneggiature ed è nostra consuetudine trattare temi profondi con ironia. È una cosa che ci piace e che fa parte di noi. Credo che anche la morte possa essere trattata con leggerezza. Olimpia, la protagonista del film, va a morire ma muore felice perché è vissuta felice, con una vita piena di trascorsi: ha vissuto con passione e si è molto divertita tra sagre, concerti, amici. Dalle varie interviste e testimonianze sul suicidio assistito che ho letto in questi anni di preparazione al film (soprattutto da quella a Stefano Gheller) emerge che bisogna amare tanto sé stessi e la vita per riuscire a concepire il suicidio assistito. Sono proprio coloro che hanno preso questa decisione radicale a dire che non resta altro da fare se si arriva al punto in cui non è più possibile vivere con dignità. Non mi sembrava che fosse efficace trattare questo tema con un dramma e il pubblico mi sta dimostrando che avevo ragione: molti spettatori mi dicono che amano piangere e ridere nella stessa scena. Del resto era così anche nella commedia all’italiana: Stefania Sandrelli viene da quel tipo di cinema e lì non c’era comicità o ironia senza un fondo di crisi. Cosa del resto presente anche in Beckett o in Kafka: c’è sempre un fondo di drammaticità reso però con ironia.
A proposito di Stefania Sandrelli: raccontaci come è stata coinvolta nel progetto e come avete lavorato insieme.
Fin dalla scrittura avevamo in mente lei, sia per il physique du rôle sia per la sua versatilità nel cambiare registro: è molto brava nell’interpretare un ruolo drammatico, quasi patetico, per poi rivolgerlo con una risata e cambiare subito tono, in maniera molto spontanea. Lei sa farlo in modo unico: in altri il passaggio sarebbe risultato forzato. La produzione conosceva il suo agente e le aveva inviato la sceneggiatura nel 2020. Stefania ha voluto incontrarci per risolvere alcuni dubbi, per capire meglio il personaggio, avvertendoci che da quel colloquio sarebbe dipesa la sua adesione al progetto. Immaginati la pressione! Alla fine è rimasta soddisfatta e ha accettato. Lavorare con lei è stato sicuramente un onore: una cosa è immaginare un’attrice mentre scrivi un personaggio, un’altra è averla davvero sul set. Stefania ha saputo infondere al personaggio delle sfumature e dei tratti che noi non avevamo immaginato in sceneggiatura. Era molto attenta ad ogni snodo, ad ogni battuta del personaggio, alla sua coerenza interna: mi faceva notare, ad esempio, che una certa cosa Olimpia non l’avrebbe detta o fatta. Dal canto mio ho allora dovuto lavorare molto sull’accogliere le sue proposte cercando di non snaturare il personaggio o la storia: non potevo cambiare troppo perché altrimenti avrei messo in discussione l’equilibrio della sceneggiatura o avrei perso dei rimandi tra le sequenze. Poi lei improvvisava molto e rendeva ogni ciak diverso dall’altro. Mi ha offerto molto materiale, molte scelte in fase di montaggio ed è anche grazie a lei che il film è così ricco di sfumature. Come regista ho dovuto soprattutto mantenere un equilibrio tra Stefania Sandrelli e Olimpia, perché Stefania è sempre un po’ Stefania, e il pubblico quando vede un film con lei vede anche Stefania Sandrelli.
Il rapporto tra le due protagoniste è molto ricco e si presta a diverse letture: un parallelismo del titolo (Olimpia come l’anice che “sporca” l’acqua di Maria), un passaggio di consegne, un invito al dialogo inter-generazionale. Parlaci di questo rapporto.
Questo film è fondamentalmente la storia di un incontro. Più ancora del viaggio, che è soprattutto interiore, mi interessava proprio il rapporto tra le due donne, in cui l’una trasforma l’altra. Da Olimpia che sta andando a morire, Maria impara a vivere. Mi piaceva questo paradosso. Metto in scena un viaggio verso la morte parlando di vita, perché affiancando Maria a Olimpia si crea una situazione di viaggio di formazione, di iniziazione. Olimpia insegna a Maria a ridere, a cogliere l’attimo, a non pensare al futuro o al passato perché è il presente che conta, a liberarsi dalle convenzioni sociali e morali, ad essere libera. Però anche Olimpia cambia perché Maria la sgretola un po’, insegnandole che esistono dei limiti, delle responsabilità in quello che si dice o che si fa. Soprattutto le insegna l’altruismo, il pensare agli altri. Vorrei anche sottolineare la particolarità della presenza di una coppia femminile protagonista. La stessa Sandrelli dopo Io la conoscevo bene ha sempre interpretato una co-protagonista in fianco a un uomo, mentre qui è proprio la protagonista assoluta, seppur affiancata da un’altra figura femminile che era necessaria anche per creare una certa intimità, più naturale, in quei momenti in cui Maria le toglie la parrucca, la mette a letto, etc. Anche il comparto tecnico sul set era abbastanza rosa: c’erano molte donne nella troupe e questo mi pare un elemento significativo, indicativo del fatto che i tempi stanno cambiando anche nel cinema, dopo anni di preponderanza maschile.
Il film si struttura come un road-movie che si muove su un doppio binario: quello geografico proiettato al futuro e quello temporale lungo la strada della memoria, che viene percorsa però senza l’inserimento di flashback.
Personalmente io non li amo, ma in particolare qui volevo rimanere nel presente dei tre giorni di viaggio, raccontandoli quasi in real time. La storia di Olimpia si evince dai dialoghi, dai personaggi che incontra, dalle lettere dei fan, dalle musiche dell’epoca e anche attraverso i luoghi, come lo scheletro della balera. In questo modo sono riuscito a fornire spunti, frammenti di passato. Anche i paesaggi che testimoniano il viaggio fisico sono in realtà vissuti in funzione di Olimpia, della sua memoria, delle sue proiezioni mentali, insomma dal suo punto di vista.
Il film è girato interamente sposando il punto di vista di Olimpia. Come hai operato le tue scelte di regia?
Il mio intento era di entrare con la regia nella mente di Olimpia. Ecco perché la macchina da presa è molto attaccata a lei: non è una regia oggettiva ma soggettiva, come se io assumessi le difese, la prospettiva, il punto di vista di Olimpia attraverso la camera a mano o l’uso del grandangolo. E questo vale anche nella malattia. Lungo la narrazione ci sono dei momenti di crisi in progressione: dallo smarrimento al supermercato all’allucinazione “in sottrazione” al cimitero (quando lei non vede più Maria), fino alla visione di Danzi da giovane con i Dinamici. Volevo che lo spettatore si sentisse accanto a Olimpia quando lei ha questi momenti di confusione. La visione è sempre un vedere con lei, condividere anche la sua allucinazione, la sua proiezione mentale, quasi in soggettiva.
La musica è ovviamente importantissima nella vita di Olimpia e quindi anche nel film.
La musica ha certamente un grande ruolo. Intanto evoca il passato di Olimpia, anche se non abbiamo mai creato dei pezzi di liscio puro (però nelle composizioni della colonna sonora si sente la derivazione popolare, l’eco delle canzoni da balera). Abbiamo lavorato con due componenti dello storico gruppo funky dei Ridillo (Claudio Zanoni e Daniele Benati), che sono stati molto bravi perché hanno composto buona parte delle musiche mentre erano ancora in corso le riprese, quindi unicamente sulla base della sceneggiatura. Questo mi ha aiutato poi nel montaggio di alcune sequenze. La musica è quasi un personaggio, una componente fondamentale del film. Per Olimpia la musica è stata la vita, è la sua essenza, ha per lei un potere salvifico. E diventa anche il pretesto per riallacciare dei legami con persone del suo passato.
Il finale del film, con la contrapposizione tra Maria e la sorella di Olimpia, può essere letto come una presa di posizione a favore di una nozione meno convenzionale di famiglia?
Indubbiamente sì. Affermando di essermi messo, a livello di regia, dalla parte di Olimpia, intendevo anche questo. Oggi il concetto di famiglia è talmente vasto che non ha più senso parlare di famiglia tradizionale. Per me la famiglia vera è quella basata sui legami di elezione. Di fatto si può dire che Olimpia e Maria nel loro viaggio creino una famiglia nuova, inedita. La contrapposizione tra la famiglia libera di Olimpia e Maria e la famiglia tradizionale di Clara è netta. Le azioni di Maria alla fine del film palesano la sua trasformazione: per la prima volta fa qualcosa di libero, qualcosa che prima non avrebbe mai fatto. Lì si vede la famiglia “vera”, anche se improvvisata e non convenzionale: io le vedo come famiglia per il solo fatto di essersi ritrovate l’una nell’altra. Il vero legame familiare è nel profondo rispetto delle decisioni altrui.