Skip to main content

Intervista a Mattia Temponi

Intervista a Mattia Temponi
XXI Edizione (2022) – Festival Del Cinema di Porretta Terme
Regista di El Nido, intervista a cura di Giada Sartori

Con la proiezione del film “El Nido” all’interno della selezione per il Concorso Fuori dal Giro 2022, abbiamo avuto l’opportunità di intervistare il regista Mattia Temponi.

 

Cosa ha significato per te fare un film di genere in Italia? Ti piace la definizione di film di genere o ritieni che ti stia stretta?

Mi piace l’idea di film “di genere”. È una definizione calzante e giusta. I generi sono un po’ il punto di forza in Italia e lì abbiamo saputo dimostrare il meglio del nostro estro dalla commedia con Monicelli, Risi, De Sica al western con Leone, passando per l’horror con maestri quali Bava e Argento. Quindi secondo me fare film di genere in Italia significa essere più tradizionalisti di quanto possa apparire. Io penso che al giorno d’oggi ci sia una grande voglia anche di misurarsi con il cinema di genere e una grande voglia da parte del pubblico di poterne fruire. Quindi, a parte le normali resistenze che si possono incontrare, fare film di genere in Italia significa rispondere a un’esigenza molto forte del nostro tempo.

L’idea del film è nata prima della pandemia. La vera pandemia ha influenzato la pandemia all’interno del film?

La sceneggiatura è cambiata in maniera veramente marginale, perché forse l’unica cosa che non avevamo previsto era l’igienizzante per le mani. Il merito di questa precisione va a uno degli altri due sceneggiatori che è Gabriele Gallo, che è impazzito dietro studi di settore per capire come rendere molto realistica una pandemia. All’epoca della stesura c’era un’epidemia di Ebola in Africa e c’erano pochi casi in Europa e negli Stati Uniti, ma alcuni avevano già paura anche se sembrava qualcosa di molto distante. Quando abbiamo presentato per la prima volta la sceneggiatura a un gruppo di esperti, l’avevano liquidata dicendo che la storia del virus era talmente irreale che avrebbero trovato più credibile una storia di fantasmi. La parte che è cambiata di più della storia è stata la rappresentazione del lockdown, che era una cosa estremamente ipotetica e difficile anche da spiegare dal punto di vista emotivo. Abbiamo vissuto quella sensazione sulla nostra pelle e quindi molte delle dinamiche e anche delle sensazioni che abbiamo vissuto sono poi riemerse in qualche maniera nella messa in scena.. Quindi questo ha modificato moltissimo proprio la percezione dello stare chiusi in casa perché non è stata più una roba da immaginare, anche perché l’esperienza diretta era molto fresca avendo girato nel 2020.

A livello di messa in scena come avete creato il Nido dove si svolge la storia?

Anche in questo caso si tratta di un’intuizione di Gabriele, il quale, quando abbiamo cominciato a parlare della sceneggiatura della storia, mi ha detto: “Sai, ce ne sono tante di storie di bunker o di rifugi più o meno accoglienti, però di solito sono sempre molto in contrasto con quella che sarebbe la normalità”. Per questo mi ha fatto vedere una serie di propagande degli anni 50 degli Stati Uniti in cui si parlava di rifugi, in quel caso antiatomici, ed erano campagne deliranti, dove quella tragedia veniva rappresentata come la miglior situazione possibile.  Il rifugio, all’epoca lo chiamavamo così, doveva essere un luogo accogliente e felice per quanto possa esserlo. Si chiama “Nido” perché deve sembrare un luogo accogliente, è un nome che funge da operazione di marketing. Con la scenografa Giada Calabria abbiamo lavorato molto nella costruzione del contrasto tra accoglienza e ossessività nelle forme per rendere questa idea. Le geometrie del nido son tutte esagonali, come se si ripetessero in maniera molto, molto ossessiva, ma sono tutte patinate con i giochini, con i colori pastello. Vogliono dire che l’apocalisse non fa paura, anche perché è ormai interiorizzata, fa parte della quotidianità. Mi è venuta in mente questa idea guardando la nostra società, anche pre-covid, in cui le crisi erano stavano cominciando a diventare quotidianità. C’erano la crisi del lavoro, la crisi sociale, la crisi del razzismo, la crisi delle differenze di genere, la crisi della mafia, la crisi dei rifiuti, ma erano tutte reiterate, quindi interiorizzate. Leggevamo sempre di più le crisi. E da qui è nata l’idea, appunto, di questa strana propaganda che dice l’Apocalisse non fa paura perché noi la rendiamo un soggiorno inaspettato.

Sara e Ivan sono nati insieme all’idea o sono arrivati in un secondo momento?

Sono nati immediatamente con l’idea del film. Stavo cercando da molto tempo una storia molto producibile – poche location e pochi personaggi. Sapevo quali erano gli ingredienti ma non sapevo in che situazione metterli. Un giorno per sbaglio mi chiudo nel garage e devo aspettare 20 minuti prima di uscirne. Sono lì al buio e senza niente da fare, senza telefono, senza libri e inizio a pensare e pensare. Dovevano essere due persone bloccate nel garage, un uomo e una donna. Fuori c’è qualcosa che non lifa uscire, ma anche dentro c’è qualcosa di pericoloso. Così mi è venuta in mente la storia di El Nido. L’idea di avere due personaggi, uomo o donna insieme, mi piaceva perché dava l’opportunità di sovvertire un po’ la narrativa classica con la donna in difficoltà e il principe azzurro, il cavaliere che la salva. Il cattivo doveva essere lui, non la pandemia nel mondo esterno. Forse da questo bisogno di ribaltare le aspettative è nata la necessità di ricorrere all’horror, il genere sovversivo per antonomasia.

Tu hai già girato dei cortometraggi e questo è il tuo debutto nel lungometraggio. Come hai vissuto questo passaggio?

Innanzitutto in me c’era un grande desiderio di dirigere un lungometraggio. Stavo cercando una storia che fosse originale ma anche facilmente producibile. El Nido è stato girato tutto in un teatro da posa ed è stato come tornare al cinema delle origini. Dal punto di vista della produzione un film simile significava appunto contenere sempre tutto in un ambiente, in una situazione controllata. Insomma, cercavo una storia che mi permettesse di fare il salto da cortometraggio a lungometraggio, ma il percorso non è stato dei più semplici. Dalla prima stesura al primo ciak son passati quasi sei anni, il che non è qualcosa di strano nel nostro paese. Una volta sul set mi hanno definito un enfant prodige perché ho girato la mia opera di esordio a 36 anni. Il percorso potrà non essere stato lineare ma son stato molto fortunato. Ho incontrato delle persone che hanno creduto molto nel progetto, una su tutte la produttrice Rosanna Seregni.

Come hai scelto i tuoi attori protagonisti e come è nata la co-produzione con l’Argentina?

I due elementi son collegati. La produttrice Rosanna Seregni, che ha lavorato spesso con l’Argentina, ha preso in mano il progetto e si è resa conto che aveva degli elementi di internazionalità da non sottovalutare. Essendo ambientato in un non-luogo poteva essere capito da tutti in tutti i paesi. L’America Latina è una regione del mondo molto simile all’Italia, anche come idea artistica, ed ama il cinema di genere. Grazie al suo intervento abbiamo messo in piedi una produzione italo argentina e io mi sono impegnato a imparare lo spagnolo. Con due personaggi, terzi ci imponevano logicamente che uno fosse argentino e l’altro italiano. Per lei abbiamo fatto dei provini e quando ho incontrato Blu Yoshimi non ho avuto dubbi che lei fosse perfetta per quel ruolo. Per quanto riguarda lui è stato molto più problematico fare il casting perché non era possibile viaggiare. Per questo la casting director argentina fa una serie di proposte. Conoscevo Luciano Cáceres da una telenovela che andava in onda qui in Italia e mi convinceva il suo viso. Quindi ci sentiamo via zoom, ci convinciamo che possiamo lavorare insieme e ci vediamo la prima volta fisicamente solo una settimana prima delle riprese. C’è stato un atto di fiducia reciproca, che ha fatto sì che anche questa collaborazione funzionasse molto bene e siamo diventati tutti molto amici.